“ In certo tempo venne il Venerabile huomo in Sitria; et essedo ancor digiuno, ne avendo i fratelli; come quegli che si stavano in quegli aspri monti; da mettergli innanzi pesce; cominciarono in un certo modo fra sestessi confusi, a vergognarsi, et a pensare ansiamente, che cosa potessino provedere per così Venerabile hospite. Allhora uno de fratelli, divinamente inspirato, corse con prestezza a un certo secco fiumicello, che loro correva à canto, dove era pochissima acqua, ne mai vi era stato veduto punto di Pesce. Cominciò dunque il fratello à pregar Dio devotamente, che si come al popolo Israelitico haveva fatto uscir l’acqua della Pietra, così si degnasse in quel secco Rio far vedere del Pesce. E poco appresso messo la mano in quel poco di acqua che vi era, vi trovò un Pesce, il quale al Beato huomo bastò allhora abbondantemente per refettione, e così Dio provedente fu trovato un convito nel sassoso, et arido Monte, si come fusse Vivaio in una pescosa Valle. ”
(Pietro Damiano, Vita del Padre San Romualdo Abate, Cap. LXVII)
Il “Venerabile huomo” è il Beato Romualdo (circa 952 — 1027), fondatore e riformatore di numerosi eremi e monasteri tra l’Istria, i Pirenei, le paludi ravennati e l’Appennino, complessivamente una trentina, il più famoso dei quali diverrà in seguito quello di Camaldoli, sull’Appennino toscano.
Chi racconta questo episodio della vita del “padre degli eremiti razionali”, che qui riportiamo nella prima trascrizione in italiano di Padre Agostino Fortunio (1586), è Pier Damiani (1006/7 — 1072) anch’egli ravennate e monaco, che scrive la vita di Romualdo intorno al 1042 e che, l’anno successivo, viene eletto priore del vicino eremo di Fonte Avellana.
Passano i secoli, la Badia di Sitria è ormai da tempo caduta in rovina quando, nell’agosto del 1882, la raggiunge una “comitiva di alpinisti” proveniente da Perugia e diretta, passando per Fonte Avellana, alla vetta del Catria.
Per la siccità estiva il torrente è di nuovo in secca. Il ricordo di San Romualdo è ancora vivo, anche se, fuori dalla storia, ormai nel mondo della leggenda. Raccolte dalla viva voce di un abitante di Isola Fossara (PG), villaggio poco distante dalla Badia di Sitria, un paio di narrazioni popolari riguardanti la vita del santo eremita sono state trascritte fedelmente da Giuseppe Bellucci (1844 — 1921), professore e antropologo, che di quella comitiva faceva parte e che ci ha lasciato un’accurata cronaca dell’escursione:
“ Lungo la via, sapemmo dall’uomo che ci accompagnava altri particolari, avvenuti nell’epoche in cui la credulità pubblica raggiungeva molte volte altezze elevatissime. Parecchi, specialmente nelle campagne, credono ancora in buona fede, ciò che fu loro raccontato dai vecchi genitori, e a questi dai loro antenati, e l’uomo che ci accompagnava, quantunque scaltro ed accorto, credeva nondimeno fermamente ai miracoli che ci raccontava; a qualche nostra riflessione egli ci rispondeva « questi sono miracoli avvenuti, sono fatti veri, come le pietre sù cui camminiamo ». Ci narrò dunque che S. Romualdo in un giorno di grande arsura, assetato e stanco, batté con una bacchetta uno scoglio, e dal punto colpito scaturì una sorgente di acqua limpida e fresca, che da quel giorno ha sempre seguitato a scaturire copiosamente e formò, come tuttora forma la sorgente dell’Artino. «O divina potenza della bacchetta di S. Romualdo, uno di noi esclamò, quanto riusciresti opportuna oggidì, per tante città che difettano di acqua, che non sanno o non possono trovarla. Fa una giratina per l’Umbria, a Gubbio, a Perugia sarai accolto a braccia aperte; con un colpo della tua bacchetta fatidica risolverai que’ problemi, che sebbene stillati per le menti di tanti ingegneri, attendano ancora una risoluzione».
L’altro miracolo compiuto dallo stesso Santo ha un tantino più dell’incredibile, ma in materia di fede il più ed il meno non esiste. La leggenda vuole che a S. Romualdo prigioniero (ben inteso volontario), nell’Abbazia di Sitria, non molto discosta da quella dell’Avellana, fu un giorno presentato un piatto di Capesciotti fritti. Il capesciotto è un pesciolino di torrente, che vive là dove le acque ristagnano, fra le anfrattuosità degli scogli e fra i sassi. Ė molto saporito e cibo ricercato da tutti coloro che visitano quei luoghi montani. Da quanto pare devono trovarsi in quelle acque due specie diverse di pesciolini, detti entrambi capesciotti, l’una caratterizzata da una tinta rosea, l’altra bianco grigiastra.
S. Romualdo alla vista di quel pesce fritto, sia che non lo gradisse, sia che avesse volontà di addimostrare la virtù di cui poteva disporre, disse «ritornate all’acqua pesciolini, crescete e moltiplicate», e con queste parole rovesciò i pesci fritti nel vicino torrente. Il fresco dell’acqua rianimò subito i capesciotti, i quali dopo una sguazzatina per togliersi il sale e quel po’ di olio adoperato per friggerli, tornarono a vivere lieti e contenti come prima e si moltiplicarono. Sembra però che l’effetto del rosolamento prodotto dalla cottura non poté essere tolto del tutto, perché la specie rosea di capesciotti, che oggi si pesca nei torrenti, discende in linea retta da quelli che S. Romualdo tornò a gettare nell’acqua. Prima di questo fatto, non esisteva, secondo la leggenda, che una sola sorta di capesciotti, e quelli rosei sono detti oggi Capesciotti di S. Romualdo.
Questa leggenda è in quei luoghi generalmente conosciuta e creduta; il frate che ci preparò il desinare all’Avellana, nell’apprestarci un piatto di capesciotti fritti, ci disse «li mangino, perché sono squisiti, sono tutti capesciotti di S. Romualdo». Lì per lì pensammo ad un luogo di provenienza; dopo conosciuta la leggenda, intendemmo bene il significato delle parole suddette. “
(Bellucci 1882, Di ritorno dal Catria, n.ri 63-64)
Approfondimenti e riferimenti bibliografici: Alpinista 1875 n° 9; Barbadoro D., Barbadoro F. 2008; Bartoletti; Bellucci 1882; Bellucci 1894; Breve Guida Storica; Damiani VbR; Damiani VbR 1726; Damiani, Fortunio; Gabucci, Para, Poselli; Luconi; Pagnani 1967; Palazzini G. 1948; Puletti 2003a; Puletti 2003b; Puletti 2005; Sebastianelli F. .
Le tavole con gli episodi della vita di Romuldo, di Franz Ambros Dietell, sono tratte da: Google Libri .
Un ringraziamento particolare va a Luca, Mattia e Andrea, per la preziosa collaborazione nella ricerca dei “Capesciotti”.
Mappe:
Un fascino tutto particolare nasce da questi racconti agiografici e popolari sulla vita di S. Romualdo, per il profondo intrecciarsi di ambiente e storia che essi esprimono. La lettura realistica della natura, l’asprezza dell’Appennino, la siccità estiva del torrente Artino e la variabilità cromatica dei pesci che ci vivono, sono inscindibili elementi della narrazione della vita di Romualdo. Così nell’episodio agiografico che racconta della provvidenza divina, come nelle due leggende popolari, evidentemente ispirate dal primo, che raccontano i miracoli del santo ravennate.
La piccola valle del torrente Artino si trova racchiusa tra il Catria e il Monte della Strega. Apparentemente isolata, essa è un luogo cruciale per valicare l’Appennino, in quanto passaggio obbligato tra i bacini dei fiumi Cesano e Sentino. Nel Medioevo questa valle era certamente più inaccessibile di ora e l’asprezza delle montagne la rendeva ancora più isolata. Eppure allora c’era chi apprezzava particolarmente questa solitudine.
Ai piedi del Monte Nocria e della selva di Valocaia, tra il primo e il secondo decennio del XI secolo, giungeva Romualdo, figlio del Duca Sergio di Ravenna, in una delle sue numerose peregrinazioni tra montagne e paludi. Nei pressi di una sorgente, lungo il corso del torrente Artino, Romualdo aveva fondato dapprima l’eremo e in seguito il cenobio di Sitria. Il santo eremita vi aveva soggiornato a lungo: a Sitria aveva trascorso ben sette anni in totale isolamento nella sua cella, qui era stato ingiustamente accusato di atti immondi e per questo punito, qui aveva compiuto diversi miracoli e la sua fama si era diffusa nei dintorni. A Sitria, Romualdo era poi tornato poco tempo prima della morte, avvenuta nella non lontana Valdicastro, alle falde del Monte S. Vicino (tra Jesi e Fabriano), nel 1027. Era già vecchio, forse di 120 anni, come scrive Pier Damiani, o forse no, ma certamente affaticato per il viaggio e digiuno, come voleva la regola benedettina. Ecco allora spiegata l’ansia dei suoi confratelli nel cercare di apprestare un pranzo per il loro Maestro, magari, ispirati da Dio, pescando un pesce nel vicino torrente Artino, che era scarso di acqua per di più...
Tra XII e XIII secolo a Sitria furono costruiti la chiesa e gli edifici annessi del monastero, le cui forme, almeno in parte, hanno resistito fino ad oggi. In quei secoli si formeranno e si accresceranno i possedimenti temporali della Badia di Sitria, tra questi anche un settore considerevole del Monte Catria. La decadenza del monastero avvenne nel corso del XV secolo, quando la comunità monastica venne soppressa e l’abbazia data “in commenda”.
All’epoca dell’escursione della “comitiva di alpinisti” di Perugia, la Badia era ormai un rudere. Giuseppe Bellucci, guida di quegli “alpinisti”, era fondatore e presidente del Club Alpino Italiano della sua città, e aveva già scalato il Catria proprio in occasione dell’”escursione ufficiale” della Sezione perugina del CAI, avvenuta nel 1875. Antropologo ed etnologo, Bellucci trascriverà di nuovo le leggende raccolte in quella gita nella “Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane”, nel 1894. La vitalità della leggenda dei “capesciotti fritti” è testimoniata fin quasi ai nostri giorni, tanto da essere citata perfino nella “Breve Guida Storica” di Fonte Avellana del 1970.
Un breve cenno va infine dedicato ai piccoli eroi di queste storie: i capesciotti o scazzoni (Cottus gobio L., famiglia Cottidi) : cibo ristoratore del Padre Eremita nel racconto agiografico di Pier Damiani, ma anche beneficiari della benevolenza di S. Romualdo nella leggenda popolare. Mentre un tempo erano un “prelibato” piatto, ora questi piccoli pesci, lunghi non più di 10-15 cm, sono considerati dei veri indicatori della buona qualità delle acque in cui vivono, che intorno al Catria non mancano. Essi si trovano infatti nelle acque fresche e ossigenate dei torrenti Burano, Cesano e Sentino. Tra le rocce e le anfrattuosità del fondo, i Capesciotti si mimetizzano perfettamente grazie ai colori e alle macchie della loro livrea. In questa tavolozza che va dal giallo al verdastro, dal bruno al grigio, ha attinto la tradizione popolare per tessere la sua leggenda, dando origine ad una nuova specie, quella dei “Capesciotti di S. Romualdo”. In effetti questa grande variabilità di pigmentazione aveva fatto ipotizzare, anche ad alcuni zoologi, la presenza in Italia di specie o varietà diverse dal Cottus gobio europeo, chiamate Cottus ferrugineus e C. scaturigo. Le analisi degli scienziati, in particolare quelle genetiche, sembrano al momento propendere per un’unica specie, estremamente variabile. Sempre che dall’Artino non sbuchi fuori un qualche pesciolino...
[settembre 2011]